Sulle rive del Lambro


Illeso sparì da noi quel giorno
nell'acqua coi velieri capovolti.
Ci lasciarono i pini,
parvenza di fumo sulle case,
e la marina in festa
con voce alle bandiere
di piccoli cavalli.

Nel sereno colore
che qui risale a morte della luna
e affila i colli di Brianza,
tu ancora vaga movendo
hai pause di foglia.

Le api secche di miele
leggere salgono con le spoglie dei grani,
già mutano luce le Vergilie.

Al fiume che solleva ora in un tonfo
di ruota il vuoto della valle,
si rinnova l'infanzia giocata coi sassi.

Mi abbandono al suo sangue
lucente sulla fronte,
alla sua voce in servitù di dolore
funesta nel silenzio del petto.
Tutto che mi resta è già perduto:

Nel nord della mia isola e nell'est
è un vento portato dalle pietre
ad acque amate:  a primavera
apre le tombe degli Svevi;
i re d'oro si vestono di fiori.

Apparenza d'eterno alla pietà
un ordine perdura nelle cose
che ricorda l'esilio:
sul ciglio della frana
esita il macigno per sempre,
la radice resiste ai denti della talpa.
E dentro la mia sera uccelli
odorosi di arancia oscillano
sugli eucalyptus.

Qui autunno è ancora nel midollo
delle piante; ma covano i sassi
nell'alvo di terra che li tiene;
e lunghi fiori bucano le siepi.
Non ricorda ribrezzo ora il tepore
quasi umano di corolle pelose.

Tu in ascolto sorridi alla tua mente:
e quale sole lèviga i capelli
a fanciulle in corsa;
che gioie mansuete e confuse paure
e gentilezza di pianto lottato,
risorgono nel tempo che s'uguaglia!
Ma come autunno, nascosta è la tua vita.

Anche tramonta questa notte
nei pozzi dei declivi; e rulla il secchio
verso il cerchio dell'alba.

Gli alberi tornano di là dai vetri
come navi fiorite.
O cara,
come remota, morte era da terra.



L'alto veliero


Quando vennero uccelli a muovere foglie
degli alberi amari lungo la mia casa,
(erano ciechi volatili notturni
che foravano i nidi sulle scorze)
io misi la fronte alla luna,
e vidi un alto veliero.

A ciglio dell'isola il mare era sale;
e s'era distesa la terra e antiche
conchiglie lucevano fitte ai macigni
sulla rada di nani limoni.

E dissi all'amata che in sé agitava un mio figlio,
e aveva per esso continuo il mare dell'anima:
"Io sono stanco di tutte quest'ali che battono
a tempo di remo, e delle civette
che fanno il lamento dei cani
quando è vento di luna ai canneti.
Io voglio partire, voglio lasciare quest'isola".
Ed essa: "O caro, è tardi: restiamo".

Allora mi misi lentamente a contare
i forti riflessi d'acqua marina
che l'aria mi portava sugli occhi
dal volume dell'alto veliero.


Piazza Fontana


Non a me più il vento fra i capelli
caro dilunga, e delusa è la fronte:
inclina il capo docile ai fanciulli
sulla piazza, agli alberi rossi in curva.

Con umana dolcezza
autunno mi consuma. E questa furia
d'ultimi uccelli estivi sulle mura
della Curia ha il grigio dei portali,
dura nell'aria e dentro il mio
quieto stormire.

Risento
il monotono ridere senile
dei migranti acquatici,
lo scroscio improvviso di colombe
che divise la sera e a noi il saluto
a riva di Hautecombe.

Esatto quel tempo s'umilia nei simboli,
e anche questo, vivo alla sua morte.

Se ne va il mio dominio da te; rapido
muta: così contro il vento nero
delle finestre, l'acqua della fontana
in pioggia leggera.


Una sera, la neve



Di te lontana dietro una porta
chiusa, odo ancora il pianto d'animale:
così negli alti paesi al vento della neve
ulula l'aria fra i chiusi dei pastori.

Breve gioco avverso alla memoria:
la neve è qui discesa e rode
i tetti, gonfia gli archi del vecchio Lazzaretto,
e l'Orsa precipita rossa fra le nebbie.

Dove l'anca colore dei miei fiumi,
la fronte della luna dentro l'estate
densa di vespe assassinate? Resta il lutto
della tua voce umiliata nel buio delle spalle
che lamenta la mia assenza.


Già la pioggia è con noi


Già la pioggia è con noi,
scuote l'aria silenziosa.
Le rondini sfiorano le acque spente
presso i laghetti lombardi,
volano come gabbiani sui piccoli pesci;
il fieno odora oltre i recinti degli orti.

Ancora un anno è bruciato,
senza un lamento, senza un grido
levato a vincere d'improvviso un giorno.

Ora che sale il giorno


Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.

è così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura,
per restare solo a ricordarti.

Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli!

Davanti al simulacro d'Ilaria del Carretto


Sotto tenera luna già i tuoi colli,
lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse
e turchine si muovono leggere.
Così al tuo dolce tempo, cara; e Sirio
perde colore, e ogni ora s'allontana,
e il gabbiano s'infuria sulle spiagge
derelitte. Gli amanti vanno lieti
nell'aria di settembre, i loro gesti
accompagnano ombre di parole
che conosci. Non hanno pietà; e tu
tenuta dalla terra, che lamenti?
Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto
forse è il tuo, uguale d'ira e di spavento.
Remoti i morti e più ancora i vivi,
i miei compagni vili e taciturni.


Che vuoi, pastore d'aria?


Ed è ancora il richiamo dell'antico
corno dei pastori, aspro sui fossati
bianchi di scorze di serpenti. Forse
dà fiato dai piantori d'Acquaviva,
dove il Plàtani rotola conchiglie
sotto l'acqua fra i piedi dei fanciulli
di pelle uliva. O da che terra il soffio
di vento prigioniero, rompe e fa eco
nella luce che già crolla; che vuoi,
pastore d'aria? Forse chiami i morti.
Tu con me non odi, confusa al mare
dal riverbero, attenta al grido basso
dei pescatori che alzano le reti.


La dolce collina


Lontani uccelli aperti nella sera
tremano sul fiume. E la pioggia insiste
e il sibilo dei pioppi illuminati
dal vento. Come ogni cosa remota
ritorni nella mente. Il verde lieve
della tua veste è qui fra le piante
arse dai fulmini dove s'innalza
la dolce collina d'Ardenno e s'ode
il nibbio sui ventagli di saggina.

Forse in quel volo a spirali serrate
s'affidava il mio deluso ritorno,
l'asprezza, la vinta pietà cristiana,
e questa pena nuda di dolore.
Hai un fiore di corallo sui capelli.
Ma il tuo viso è un'ombra che non muta;
(così fa morte). Dalle scure case
del tuo borgo ascolto l'Adda e la pioggia,
o forse un fremere di passi umani,
fra le tenere canne delle rive.     


Strada di Agrigentum


Là dura un vento che ricordo acceso
nelle criniere dei cavalli obliqui
in corsa lungo le pianure, vento
che macchia e rode l'arenaria e il cuore
dei telamoni lugubri, riversi
sopra l'erba. Anima antica, grigia
di rancori, torni a quel vento, annusi
il delicato muschio che riveste
i giganti sospinti giù dal cielo.
Come sola allo spazio che ti resta!
E più t'accori s'odi ancora il suono
che s'allontana largo verso il mare
dove Espero già striscia mattutino:
il marranzano tristemente vibra
nella gola al carraio che risale
il colle nitido di luna, lento
tra il murmure d'ulivi saraceni.


Ride la gazza, nera sugli aranci


Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna!
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
per la prima marea. Questa è l'ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.


Del peccatore di miti


Del peccatore di miti,
ricorda l'innocenza,
o Eterno; e i rapimenti,
e le stimmate funeste.

Ha il tuo segno di bene e di male,
e immagini ove si duole
la patria della terra.



Nel senso di morte


Ceruli alberi
dove più dolce suono migra
e nasce gusto alle piogge nuove.

Ad una fronda, docile,
la luce oscilla
alle nozze con l'aria;

nel senso di  morte,
eccomi, spaventato d'amore.



Città straniera


Un'altra ora che cade:
aperta a stella una buccia di banana
vive sul fiume. Il rombo
d'un frantoio che macima pietrame
sulla cala, presso barconi inerti,
la sabbia gialla che trabocca;
e al flutto arido la pena
a cui mi fingo leggero
ogni giorno non mio.

Morti scendono da alti carrozzoni
di sangue nella nebbia,
le lampade toccano il selciato.

Fra lunghi viali
nere foglie ammucchiate
in un presagio di vento.


Nel giusto tempo umano


Giace nel vento di profonda luce,
l'amata del tempo delle colombe.
Di me di acque di foglie,
sola fra i vivi, o diletta,
ragioni; e la nuda notte
la tua voce consola
di lucenti ardori e letizie.

Ci deluse bellezza, e il dileguare
d'ogni forma e memoria,
il labile moto svelato agli effetti
a specchio degli eterni fulgori.

Ma dal profondo del tuo sangue,
nel giusto tempo umano,
rinasceremo senza dolore.


Del mio odore di uomo


Negli alberi uccisi
ululano gli infermi:
dorme l'estate nel vergine miele,
il ramarro nell'infanzia di mostro.

Del mio odore di uomo
grazia all'aria degli angeli,
all'acqua mio cuore celeste
nel fertile buio di cellula.

Latomìe


Sillabe d'ombre e foglie,
sull'erbe abbandonati
si amano i morti.

Odo. Cara la notte ai morti,
a me specchio di sepolcri,
di latomìe di cedri verdissime,

di cave di salgemma,
di fiumi cui il nome greco
è un verso a ridirlo, dolce.

In luce di cieli


Dagli stagni salgono nuvole beate;
finirà anche il fuoco dell'aria
nel fermo cuore.

Cara giovinezza; è tardi.
Ma posso amare tutto della terra
in luce di cieli in tenebra di vento;
e, su ogni parvenza, la donna
che mi venne non è gran tempo,
al cui riso mi specchio,
che amore chiamava, sua verde salute.

Così solo, numeri di perduto bene
mi narravo, e giorni,
e, splendenti in remote aure,
acque di selve ed erbe.

Nell'isola morta,
lasciata da ogni cuore
che udiva la mia voce,
posso restare murato.


Sardegna


Nell'ora mattutina a luna accesa,
appena affiori, geme
l'acqua celeste.

Ad altra foce
più dolente sostanza
soffiò di vita l'urlo dei gabbiani.

Mi trovo di stessa nascita;
e l'isolano antico,
ecco, ricerca il solo occhio
sulla sua fronte, infulminato,
e il braccio prova
nel lancio delle rupi maestro.

Graniti sfatti dall'aria,
acque che il sonno grave
matura in sale.

La pietà m'ha perduto;
e qui ritrovo il segno
che allo squallido esilio
s'esprime amoroso;
nei nomi di memoria: Siliqua
dai conci di terra cruda,
negli ossami di pietra
in coni tronchi.

Deserto effimero: in cuore gioca
il volume dei colli d'erba giovane;

e la fraterna aura conforta amore.

Salina d'inverno


Dolcezza, mai dentro mi dormi,
e un giorno fingi di limpida luce
in cui le cose muovano
in limiti precisi:
a fuoco suoni l'albero nel cielo,
e il caro ridere di creature umane.

Salina: gelida. Già fu nel tempo
un segno espresso
il mutarsi dell'acqua
in forma incorruttibile:
alla sua legge trovarsi in armonia.

Ecco, s'acerba disumano il transito
d'uccelli di palude nell'aria vuota
pianto di nuovi nati.

Tra muschi grami, a suppizio
splende la pietra livida:
deriva sull'acqua
una radice naufraga,
una foglia ancor verde
superflua alla terra.

Isola di Ulisse


Ferma è l'antica voce.
Odo risonanze effimere,
oblio di piena notte
nell'acqua stellata.

Dal fuoco celeste
nasce l'isola di Ulisse.
Fiumi lenti portano alberi e cieli
nel rombo di rive lunari.

Le api, amata, ci recano l'oro:
tempo delle mutazioni, segreto.

Sovente una riviera


Sovente una riviera
raggia d'astri solenni,
bugni di zolfo sul mio capo
dondolano.

Tempo d'api: e il miele
è nella mia gola
fresca di suono ancora.
Un corvo, di meriggio gira
su arenarie bige.

Arie dilette: cui quiete di sole
insegna morte, e notte
parole di sabbia,

di patria perduta.

Insonnia (Necropoli di Pantàlica)


Un soffio lieto d'alati
a verde lume discorde:
il mare nelle foglie.

Dissòno. E tutto che mi nasce a gioia
dilania il tempo; un'eco appena
ne serba in voce d'alberi.

Amore di me perduto,
memoria non umana:
sui morti splendono stimmate celesti,
gravi stellati scendono nei fiumi:
s'affioca un'ora di pioggia soave,
o muove un canto in questa notte eterna.
 

Da anni e anni, in cubicolo aperto
dormo della mia terra,
gli òmeri d'alghe contro grige acque:

nell'aria immota tuonano meteore.

Al tuo lume naufrago


Nasco al tuo lume naufrago,
sera d'acque limpide.

Di serene foglie
arde l'aria consolata.

Sradicata dai vivi,
cuore provvisorio,
sono limite vano.

Il tuo dono tremendo
di parole, Signore,
sconto assiduamente.

Destami dai morti:
ognuno ha preso la sua terra
e la sua donna.

Tu m'hai guardato dentro
nell'oscurità delle viscere:
nessuno ha la mia disperazione
nel suo cuore:

sono un uomo solo,
un solo inferno.


Sul colle delle "Terre Bianche"


Dal giorno, superstite
con gli alberi mi umilio.

Assai arida cosa;
a infermo verde amica,
a nubi gelide
rassegnate in piogge.

Il mare empie la notte,
e l'urlo preme maligno
in poca carne affondato.

Un'eco ci consoli della terra
al tardo strazio, amata;

o la quiete geometrica dell'Orsa.

Airone morto


Nella palude calda confitto al limo,
caro agli insetti, in me dolora
un airone morto.

Io mi divoro in luce e suono;
battuto in echi squallidi
da tempo a tempo geme un soffio
dimenticato.

Pietà, ch'io non sia
senza voci e figure
nella memoria un giorno.

L'ànapo


Alle sponde odo l'acqua colomba,
ànapo mio; nella memoria geme
al suo cordoglio
uno stormire altissimo.

Sale soavemente a riva,
dopo il gioco coi numi,
un corpo adolescente:
mutevole ha il volto,
su una tibia al moto della luce
rigonfia un grumo vegetale.

Chino ai profondi lieviti
ripatisce ogni fase,
ha in sé la morte in nuziale germe.

- Che hai tu fatto delle maree del sangue,
Signore? - Ciclo di ritorni
vano sulla sua carne,
la notte e il flutto delle stelle.

Ride umano sterile sostanza.
In fresco oblio disceso
nel buio d'erbe giace:

l'amata è un'ombra e origlia
nella sua costola.

Mansueti animali,
le pupille d'aria,
bevono in sogno.



Apòllion



I monti a cupo sonno
supini giacciono affranti.

L'ora nasce
della morte piena, Apòllion;
io sono tardo ancora di membra
e il cuore grava smemorato.

Le mie mani ti porgo
dalle piaghe scordate,
amato distruttore.

Canto di Apòllion


Terrena notte, al tuo esiguo fuoco
mi piacqui talvolta,
e scesi fra i mortali.

E vidi l'uomo
chino sul grembo dell'amata
ascoltarsi nascere,
e mutarsi consegnato alla terra,
le mani congiunte,
gli occhi arsi e la mente.

Amavo. Fredde erano le mani
della creatura notturna:
alti terrori accoglieva nel vasto letto
ove nell'alba udii destarmi
da battito di colombe.

Poi il cielo portò foglie
sul suo corpo immoto:
salirono cupe le acque nei mari.

Mi amore, io qui mi dolgo
senza morte, solo.


Sillabe a Erato


A te piega il cuore in solitudine,
esilio d'oscuri sensi
in cui trasmuta ed ama
ciò che parve nostro ieri,
e ora è sepolto nella notte.

Semicerchi d'aria ti splendono
sul volto; ecco m'appari
nel tempo che prima ansia accora
e mi fai bianco, tarda la bocca
a luce di sorriso.

Per averti ti perdo,
e non mi dolgo: sei bella ancora,
ferma in posa dolce di sonno:
serenità di morte estrema gioia.

Amen per la Domenica in Albis


Non m'hai tradito, Signore:
d'ogni dolore
son fatto prima nato.

Io mi cresco un male


Grato respiro una radice
esprime d'albero corrotto:

Io mi cresco un male
da vivo che a mutare
ne soffre anche la carne.

D'alberi sofferte forme


Ora matura, primizia del sole
la luce che destò d'intorno
d'alberi sofferte forme,
e sospirar d'acque
che la notte confuse alle parole,
e sollevate l'ombre
si piegano alle siepi.

Inutile giorno,
mi togli da spazi sospesi,
(deserti spenti, abbandoni)
da quiete selve
avvinte da canapi d'oro,
cui non muta senso
lo stormire dei venti
che d'impeto crolla,
né volgere di stelle.

Il cuore mi scopri sotterraneo,
che ha rose e lune a dondolo,
e ali di bestie di rapina
e cattedrali, da cui tenta
altezze di pianeti l'alba.

Ignoto mi svegli
a vita terrena.

Anellide ermafrodito



Mite letargo d'acque:
la neve cede chiari azzurri.

Sono memoria
d'ogni mia ora terrena,
angelo biancospino.

A te mi porgo trebbiato
senza seme; e duole dentro
pietà di magre foglie
che m'aiuta la morte.

Dalla fangaia affiora
roseo anellide
ermafrodito. 

Fresche di fiumi in sonno


Ti trovo nei felici approdi,
della notte consorte,
ora dissepolta
quasi tepore d'una nuova gioia,
grazia amara del viver senza foce.

Vergini strade oscillano
fresche di fiumi in sonno:

E ancora sono il prodigo che ascolta
dal silenzio il suo nome,
quando chiamano i morti.

Ed è morte
uno spazio nel cuore.

Verde deriva


Sera: luce addolorata,
pigre campane affondano.
Non dirmi parole: in me tace
amore di suoni, e l'ora è mia
come nel tempo dei colloqui
con l'aria e con le selve.

Sopori scendevano dai cieli
dentro acque lunari,
case dormivano sonno di montagne,
o angeli fermava la neve sugli ontani,
e stelle ai vetri
velati come carte d'aquiloni.

Verde derive d'isole,
approdi di velieri,
la ciurma che seguiva mari e nuvole
in cantilena di remi e di cordami
mi lasciava la preda:
nuda e bianca, che a toccarla
si udivano in segreto
le voci dei fiumi e dalle rocce.

Poi le terre posavano
su fondali d'acquario,
e ansia di noia e vita d'altri moti
cadeva in assorti firmamenti.
Averti è sgomento
che sazia d'ogni pianto,
dolcezza che l'isole richiami.


Primo giorno


Una pace d'acque distese,
mi desta nel cuore
d'antichi uragani,
piccolo mostro turbato.

Son lievi al mio buio
le stelle crollate con me
in sterili globi a due poli,
tra solchi d'aurore veloci:
amore di rupi e di nubi.

è tuo il mio sangue,
Signore: moriamo.

Seme







Alberi d'ombre,
isole naufragano in vasti acquari,
inferma notte,
sulla terra che nasce;

Un suono d'ali
di nuvola che s'apre
sul mio cuore:
nessuna cosa muore,
che in me non viva.

Tu mi vedi: così lieve son fatto,
così dentro alle cose
che cammino coi cieli;

che quando Tu voglia
in seme mi getti
già stanco del peso che dorme.


L'acqua infradicia ghiri


Lucida alba di vetri funerari.
L'acqua infradicia ghiri
nel buio vegetale,
dai grumi dei faggi
filtrando inconsapevole
nei tronchi cavi.

Come i ghiri, il tempo che dilegua:
e bruci il tonfo ultimo,
rapina di dolcezze.

Né in te riparo,
abbandonata al sonno
da fresca gioia:
vanamente rinsanguo fatto sesso.


Mobile d'astri e di quiete


E se di me gioia ti vince,
è nodo d'ombre.
Non altro ora consola
che il silenzio: e non ci sazia
volto mutevole d'aria e di colli,
giri la luce i suoi cieli cavi
a limite di buio.

Mobile d'astri e di quiete
ci getta notte nel veloce inganno:
pietre che l'acqua spolpa ad ogni foce.

Bambini dormono ancora nel sonno;
io pure udivo un urlo talvolta
rompere e farsi carne;
e battere di mani ed una voce
dolcezze spalancarmi ignote.


Fatta buio e altezza


Tu vieni nella mia voce:
e vedo il lume quieto
scendere in ombra a raggi
e farti nuvola d'astri intorno al capo.
E me sospeso, a stupirmi degli angeli,
dei morti, dell'aria accesa in arco.

Non mia; ma entro lo spazio
riemersa, in me tremi,
fatta buio ed altezza.

Vita nascosta



Filtra l'ora e lo spazio
e non ha luce presagio
nell'abbandono dell'erbe;
e il vento, il fresco vento non versa
telai di suoni e chiarità improvvise,
e quando tace anche il cielo è solo.

Dammi vita nascosta,
e se non sai me pure occulta,
notte aereo mare.

Nafrago: e in ogni sillaba m'intendi
che dalla terra scava il suo spiraglio
e nell'ombra s'allarga,
e albero diventa o pietra o sangue
in ansiosa forma d'anima
che in sé muore,
me stesso brucato dal patire
che m'asserena, profondità d'amore.


L'angelo



Dorme l'angelo
su rose d'aria, candido,
sul fianco,
a bacio del grembo
le belle mani in croce.

La mia voce lo desta;
e mi sorride,
sparsa di polline
la guancia che posava.

Canta; m'assale il cuore,
opaco cielo d'alba.
L'angelo è mio;
io lo posseggo: gelido.


Convalescenza


Farsi amore un'altra morte sento
ignota a me, ma più di questa tarda,
che mi spinge sovente alle sue forme.

Abbandoni d'alga:
mi cerco negli oscuri accordi
di profondi risvegli
su rive dense di cielo.

Il vento s'innesta
docile al mio sangue,
ed è già voce e naufragio,
mani che rinascono:

mani conserte o palma a palma giunte
in distesa rinuncia.

Di te ha sgomento
il cuore secco e dolente,
infanzia imposseduta.


Dammi il mio giorno



Dammi il mio giorno;
ch'io mi cerchi ancora
un volto d'anni sopito
che un cavo d'acque
riporti in trasparenza,
e ch'io pianga amore di me stesso.

Ti cammino sul cuore,
ed è un trovarsi d'astri
in arcipelaghi insonni,
notte, fraterni a me
fossile emerso da uno stanco flutto;

un incurvarsi d'orbite segrete
dove siam fitti
coi macigni e l'erbe.


Dove morti stanno ad occhi aperti



Seguiremo case silenziose,
dove morti stanno ad occhi aperti
e bambini già adulti
nel riso che li attrista,
e fronde battono a vetri taciti
a mezzo delle notti.

Avremo voci di morti anche noi,
se pure fummo vivi talvolta
o il cuore delle selve e la montagna,
che ci sospinse ai fiumi,
non ci volle altro che sogni.




Isola


Io non ho che te,
cuore della mia razza.

***

Di te amore m'attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d'aranci,
o d'oleandri, sereno,
cammina con rose il torrente
che quasi n'è tocca la foce.

Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se infanzia o amore,
ansia d'altri cieli mi volge,
e mi nascondo nelle perdute cose.


A me discesa per nuova innocenza





Era beata stanotte la tua voce
a me discesa per nuova innocenza
nel tempo che patisco un nascimento
d'accorate letizie.

Tremavi bianca,
le braccia sollevate;
e io giacevo in te
con la mia vita
in poco sangue raccolta,
dimentico del canto
che già m'ha fatto estrema,
con la donna che mi tolse in disparte,

la mia tristezza
d'albero malnato.


Metamorfosi nell'urna del Santo





I morti maturano,
il mio cuore con essi.
Pietà di sé
nell'ultimo umore ha la terra.

Muove nei vetri dell'urna
una luce d'alberi lacustri:
mi devasta oscura mutazione,
santo ignoto: gemono al seme sparso
larve verdi:
il mio volto è la loro primavera.

Nasce una memoria di buio
in fondo a pozzi murati,
un'eco di timpani sepolti:

sono la tua reliquia
patita.









La mia giornata paziente



La mia giornata paziente
a te consegno, Signore,
non santa infermità,
i ginocchi spaccati dalla noia.

M'abbandono, m'abbandono;
ululo di primavera,
è una foresta
nata nei miei occhi di terra.



Alla Notte



Dalla tua matrice
io salgo immemore
e piango.

Camminano angeli, muti
con me; non hanno respiro le cose;
in pietra mutata ogni voce,
silenzio di cieli sepolti.

Il primo tuo uomo
non sa, ma dolora.


Dormono selve


Matrice secca d'amore e di nati,
ti gemo accanto
da lunghi anni, disabitato.

Dormono selve
di verde serene, di vento,
pianure dove lo zolfo
era l'estate dei miti,
immobile.

Non eri entrata a vivermi,
presagio di durevole pena:
la terra moriva sulle acque
antiche mani nei fiumi
coglievano papiri.

Non so odiarti: così lieve
il mio cuore d'uragano.


Foce del fiume Roja




Un vento grave d'ottoni
mortifica il canto,
e tu soffri a grembo aperto
la voce disumana.

Da me divisa s'autunna
ai moti estremi giovinezza
e dichina.

La sera è qui, venuta ultima,
uno strazio d'albatri;
il greto ha tonfi, sulla foce,
amari, contagio d'acque desolate.

Lievita la mia vita di caduto,
esilio morituro.




Preghiera alla pioggia


Odore buono del cielo
sull'erbe,
piogge di prima sera.

Nuda voce, t'ascolta:
e ne ha primizie dolci di suono
e di rifugio il cuore arato;
e mi sollevi muto adolescente,
d'altra vita sorpreso e d'ogni moto
di subite resurrezioni,
che il buio esprime e trasfigura.

Pietà del tempo celeste,
della sua luce
d'acqua sospese;

del nostro cuore
delle vene aperte
sulla terra.



Autunno


Autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d'alberi e d'abissi.

Aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:

povera cosa caduta
che la terra raccoglie.


Senza memoria di morte


Primavera solleva alberi e fiumi;
la voce fonda non odo,
in te perduto, amata.

Senza memoria di morte,
nella carne congiunti,
il rombo d'ultimo giorno
ci desta adolescenti.

Nessuno ci ascolta;
il lieve respiro del sangue!

Fatta ramo
fiorisce sul tuo fianco
la mia mano.

Da piante pietre acque,
nascono gli animali
al soffio dell'aria.


 


Lamentazione d'un fraticello d'icona


Di assai aridità mi vivo,
mio Dio;
il mi verde squallore!

Romba alta una notte
di caldi insetti;

il cordiglio mi slega
la tunica marcia d'orbace:
mi cardo la carne
tarlata d'ascaridi:
amore, mio scheletro.

Nascosto, profondo, un cadavere
mastica terra intrisa d'orina:

mi pento
d'averti donato il mio sangue,
Signore, mio asilo:

misericordia!



Compagno



Non so che luce mi dèsti:
nuziale ellisse di bianco e di celeste
precipita e in me frana. Tu sei,
beata nascita, a toccarmi
e nei silenzi aduni figure dell'infanzia:
mitissimi occhi di pecora trafitta,
un cane che m'uccisero,
e fu un compagno brutto e aspro
dalle scapole secche.

E quel fanciullo io amavo
sopra gli altri; destro
nel gioco della lippa e delle piastre
e tacito sempre e senza riso.

Si cresceva in vista d'alti cieli
correndo terre e vapori di pianeti:
misteriosi viaggi a lume di lucerna,
e il sonno tardo mi chiudeva assorto
nei canti dei pollai, sereni,
nel primo zoccolar vicino ai forni
delle serve discinte.

M'hai dato pianto
e il nome tuo la luce non mi schiara,
ma quello bianco d'agnello
del cuore che ho sepolto.



Un sepolto in me canta


M'esilio; si colma
ombra di mirti
e il sopito spazio m'adagia.

Né amore accosta
silvani accordi felici
nell'ora sola con me:
paradiso e palude
dormono in cuore ai morti.

E un sepolto in me canta
che la pietraia forza
come radice, e tenta segni
dell'opposto cammino.


Curva minore


Pèrdimi, Signore, ché non oda
gli anni sommersi taciti spogliarmi,
sì che cangi la pena in moto aperto:
curva minore
del vivere m'avanza.

E fammi vento che naviga felice,
o seme d'orzo o lebbra
che sé esprima in pieno divenire.

E sia facile amarti
in erba che accima alla luce,
in piaga che buca la carne.

Io temo una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca.

Ancora mi lasci: son solo
nell'ombra che in sera si spande,
né valico s'apre al dolce
sfociare nel sangue. 



Di fresca donna riversa in mezzo ai fiori





S'indovinava la stagione occulta
dall'ansia delle piogge notturne,
dal variar nei cieli delle nuvole,
ondose lievi culle;
ed ero morto.

Una città a mezz'aria sospesa
m'era ultimo esilio,
e mi chiamavano intorno
le soavi donne d'un tempo,
e la madre, fatta nuova dagli anni,
la dolce mano scegliendo dalle rose
con le più bianche mi cingeva il capo.

Fuori era notte
e gli astri seguivano precisi
ignoti cammini in curve d'oro
e le cose fatte fuggitive
mi traevano in angoli segreti
per dirmi di giardini spalancati
e del senso di vita;
ma a me doleva ultimo sorriso.

di fresca donna riversa in mezzo ai fiori.




Parola


Tu ridi che per sillabe mi scarno
e curvo cieli e colli, azzurra siepe
a me d'intorno, e stormir d'olmi
e voci d'acque trepide; -
che giovinezza inganno
con nuvole e colori
che la luce sprofonda.

Ti so. In te tutta smarrita
alza bellezza i seni,
s'incava ai lombi e in soave moto
s'allarga per il pube timoroso,
e ridiscende in armonia di forme
ai piedi belli con dieci conchiglie.

Ma, se ti prendo, ecco:
parola tu pure mi sei e tristezza.


Nell'antica luce delle maree


Città d'isola
sommersa nel mio cuore,
ecco discendo nell'antica luce
delle maree, presso sepolcri
in riva d'acque
che una letizia scioglie
d'alberi sognati.

Mi chiamo: si specchia
un suono in amorosa eco,
e il segreto n'è dolce, il trasalire
in ampie frane d'aria.

Una stanchezza s'abbandona
in me di precoci rinascite,
la consueta pena d'esser mio
in un'ora di là dal tempo.

E i tuoi morti sento
nei gelosi battiti
di vene vegetali
fatti men fondi:

un respirare assorto di narici.



Riposo dell'erba


Deriva di luce; labili vortici,
aeree zone di soli,
risalgono abissi: Apro la zolla
ch'è mia e m'adagio. E dormo:
da secoli l'erba riposa
il suo cuore con me.

Mi desta la morte:
più uno, più solo,
battere fondo del vento:
di notte.


Nascita del canto


Sorgiva: luce riemersa:
foglie bruciano rosee.

Giaccio su fiumi colmi
dove son isole
specchi d'ombre e d'astri.

E mi travolge il tuo grembo celeste
che mai di gioia nutre
la mia vita diversa.

Io muoio per riaverti,
anche delusa,
adolescenza delle membra
inferme.


Alla mia terra


Un sole rompe gonfio nel sonno
e urlano alberi;
avventurosa aurora
in cui disancorata navighi,
e le stagioni marine
dolci fermentano rive nasciture.

Io qui infermo mi desto,
d'altra terra amaro
e della pietà mutevole del canto
che amore mi germina
d'uomini e di morte.

Il mio male ha nuovo verde,
ma le mani son d'aria
ai tuoi rami,
a donne che la tristezza
chiuse in abbandono
e mai le tocca il tempo,
che a me discorza e imbigia.

In te mi getto: un fresco
di navate posa nel cuore:
passi ignudi d'angeli
vi s'ascoltano, al buio.    



L'Eucalyptus


Non una dolcezza mi matura,
e fu di pena deriva
ad ogni giorno
il tempo che rinnova
a fiato d'aspre resine.

In me un albero oscilla
da assonata riva,
alata aria
amare fronde esala.

M'accori, dolente rinverdire,
odore dell'infanzia
che grama gioia accolse,
inferma già per un segreto amore
di narrarsi all'acque.

Isola mattutina:
raffiora a mezza luce
la volpe d'oro
uccisa una sorgiva.



Oboe sommerso


Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;
in me si fa sera:
l'acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.


I ritorni


Piazza Navona, a notte, sui sedili
stavo supino in cerca della quiete,
e gli occhi con rette e volute di spirali
univano le stelle,
le stesse che seguivo da bambino
disteso sui ciottoli del Plàtani
sillabando al buio le preghiere.

Sotto il capo incrociavo le mie mani
e ricordavo i ritorni:
odore di frutta che secca sui graticci,
di violaciocca, di zenzero, di spigo;
quando pensavo di leggerti, ma piano,
(io e te, mamma, in un angolo in penombra)
la parabola del prodigo,
che mi seguiva sempre nei silenzi
come un ritmo che s'apra ad ogni passo
senza volerlo.

Ma ai morti non è dato di tornare,
e non c'è tempo nemmeno per la madre
quando chiama la strada;
e ripartivo, chiuso nella notte
come uno che tema all'alba di restare.

E la strada mi dava le canzoni,
che sanno di grano che gonfia nelle spighe,
del fiore che imbianca gli uliveti
tra l'azzurro del lino e le giunchiglie;
risonanze nei vortici di polvere,
cantilene d'uomini e cigolio di traini
con le lanterne che oscillano sparute
ed hanno appena il chiaro d'una lucciola.



Anche mi fugge la mia compagnia




Anche mi fugge la mia compagnia,
donne di ghetto, giullari di taverna,
fra cui passai gran tempo,
e morta è la ragazza
a cui ardeva il volto perenne
unto d'olio della pasta àzzima
e la buia carne d'ebrea.

Forse è mutata pure la mia tristezza,
come fossi non mio,
da me stesso scordato.




Rifugio d'uccelli notturni


In alto c'è un pino distorto;
sta intento ed ascolta l'abisso
col fusto piegato a balestra.

Rifugio d'uccelli notturni,
nell'ora più alta risuona
d'un battere d'ali veloce.

Ha pure un suo nido il mio cuore
sospeso nel buio, una voce;
sta pure in ascolto, la notte.



Avidamente allargo la mia mano


In povertà di carne, come sono
eccomi, Padre; polvere di strada
che il vento leva appena in suo perdono.

Ma se scarnire non sapevo un tempo
la voce primitiva ancora rozza,
avidamente allargo la mia mano:
dammi dolore cibo cotidiano.


 

In me smarrita ogni forma



Altra vita mi tenne: solitaria
fra gente ignota; poco pane in dono.
In me smarrita ogni forma,
bellezza, amore, da cui trae inganno
il fanciullo e la tristezza poi.


Vicolo


Mi richiama talvolta la tua voce,
e non so che cieli ed acque
mi si svegliano dentro:
una rete di sole che si smaglia
sui tuoi muri ch'erano a sera
un dondolio di lampade
delle botteghe tarde
piene di vento e di tristezza.

Altro tempo: un telaio batteva nel cortile,
e s'udiva la notte un pianto
di cuccioli e bambini.

Vicolo: una croce di case
che si chiamano piano,
e non sanno ch'è paura
di restare sole nel buio.


Nessuno


Io sono forse un fanciullo
che ha paura dei morti,
ma che la morte chiama
perchè lo sciolga da tutte le creature:
i bambini, l'albero, gli insetti;
da ogni cosa che ha cuore di tristezza.

Perchè non ha più doni
e le strade son buie,
e più non c'è nessuno
che sappia farlo piangere
vicino a te, Signore.


Specchio


Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell'acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c'era.




Fresca marina


A te assomiglio la mia vita d'uomo,
fresca marina che tra i ciottoli e luce
e scordi a nuova onda
quella cui diede suono
già il muovere dell'aria.

Se mi dèsti t'ascolto,
e ogni pausa è cielo in cui mi perdo,
serenità d'alberi a chiaro della notte.


Tu chiami una vita


Fatica d'amore, tristezza;
tu chiami una vita
che dentro, profonda, ha nomi
di cieli e giardini.

E fossi mia carne
che il dono di male trasforma.

Mai ti vinse notte così chiara



Mai ti vinse notte così chiara
se t'apri al riso e par che tutta tocchi
d'astri una scala
che già scese in sogno rotando
a pormi dietro nel tempo.

Era Iddio allora timore di chiusa stanza
dove un morto posa,
centro d'ogni cosa,
del sereno e del vento del mare e della nube.

E quel gettarmi alla terra,
quel gridare alto il nome nel silenzio,
era dolcezza di sentirmi vivo.

I morti


Mi parve s'aprissero voci,
che labbra cercassero acque,
che mani s'alzassero a cieli.

Che cieli! Più bianche dei morti
che sempre mi destano piano;
i piedi hanno scalzi, non vanno lontani.

Gazzelle alle fonti bevevano,
vento a frugare ginepri
e rami ad alzare le stelle?


S'udivano stagioni aeree passare



Ambiguo riso tagliava la tua bocca
a darmi pieno soffrire,
un'eco di mature angosce
rinverdiva a toccar segni
alla carne oscuri di gioia.

S'udivano stagioni aeree passare,
nudità di mattini,
labili raggi urtarsi.

Altro sole, da cui venne
questo peso di parlarmi tacito.

Dolore di cose che ignoro


Fitta di bianche e di nere radici
di lievito odora e lombrichi,
tagliata dall'acque la terra.

Dolore di cose che ignoro
mi nasce: non basta una morte
se ecco più volte mi pesa
con l'erba, sul cuore, una zolla.


Antico Inverno


Desiderio delle tue mani chiare
nella penombra della fiamma:
sapevano di rovere e di rose;
di morte. Antico inverno.

Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
così le parole.
Un po' di sole, una raggera d'angelo,
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d'aria al mattino.


Spazio


Uguale raggio mi chiude
in un centro di buio,
ed è vano ch'io evada.
Talvolta un bambino vi canta
non mio; breve è lo spazio
e d'angeli morti sorride.

Mi rompe. Ed è amore alla terra
ch'è buona se pure vi rombano abissi
di acque, di stelle, di luce;
se pure aspetta, deserto paradiso,
il suo dio d'anima e di pietra.


Si china il giorno


Mi trovi deserto, Signore,
nel tuo giorno,
serrato ad ogni luce.

Di te privo spauro,
perduta strada d'amore,
e non m'è grazia
nemmeno trepido cantarmi
che fa secche mie voglie.

T'ho amato e battuto;
si china il giorno
e colgo ombre dai cieli:
che tristezza il mio cuore
di carne!


Terra


Notte, serene ombre,
culla d'aria,
mi giunge il vento se in te mi spazio,
con esso il mare odore della terra
dove canta alla riva la mia gente
a vele, a nasse,
a bambini anzi l'alba desti.

Monti secchi, pianure d'erba prima
che aspetta mandrie e greggi,
m'è dentro il male vostro che mi scava.



Acquamorta


Acqua chiusa, sonno delle paludi
che in larghe lamine maceri veleni,
ora bianca ora verde nei baleni,
sei simile al mio cuore.

Il pioppo ingrigia d'intorno ed il leccio;
le foglie e le ghiande si chetano dentro,
e ognuna ha i suoi cerchi d'un unico centro
sfrangiati dal cupo ronzar del libeccio.

Così, come su acqua allarga
il ricordo i suoi anelli, il mio cuore;
si muove da un punto e poi muore;
così t'è sorella acquamorta.
 


Ariete


Nel pigro moto dei cieli
la stagione si mostra: al vento nuova,
al mandorlo che schiara
piani d'ombra aerei
nuvoli d'ombra e biade:
e ricompone le sepolte voci
dei greti, dei fossati,
dei giorni di grazia favolosi.

Ogni erba dirama,
e un'ansia prende le remote acque
di gelidi lauri ignudi iddii pagani;
ed ecco salgono dal fondo fra le ghiaie
e capovolte dormono celesti.


Albero


Da te un'ombra si scioglie
che par morta la mia
se pure al moto oscilla
o rompe fresca acqua azzurrina
in riva all'Anapo, a cui torno stasera
che mi spinse marzo lunare
già d'erbe ricco e d'ali.

Non solo d'ombra vivo
ché terra e sole e dolce dono d'acqua
t'ha fatto nuova ogni fronda,
mentr'io mi piego e secco
e sul mio viso tocco la tua sforza.


E la tua veste è bianca




Piegato hai il capo e mi guardi;
e la tua veste è bianca,
e un seno affiora dalla trina
sciolta sull'omero sinistro.

Mi supera la luce; trema,
e tocca le tue braccia ignude.

Ti rivedo. Parole
avevi chiuse e rapide,
che mettevano cuore
nel peso d'una vita
che sapevo di circo.

Profonda la strada
su cui scendeva il vento
certe notti di marzo,
e ci svegliava ignoti
come la prima volta.




Angeli




Perduta ogni dolcezza in te di vita,
il sogno esalti; ignota riva incontro
ti venga avanti giorno
a cui tranquille acque muovono appena
folte d'angeli di verdi alberi in cerchio.

Infinito ti sia; che superi ogni ora
nel tempo che parve eterna,
riso di giovinezze, dolore,
dove occulto cercasti
il nascere del giorno e della notte.

Vento a Tìndari




Tìndari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull'acque
dell'isole dolci del dio,
oggi m'assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m'accompagna
s'allontana nell'aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d'ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d'anima.

A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l'esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d'armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tìndari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo
da una rupe
e io fingo timore
a chi non sa
che vento profondo m'ha cercato.





Ed è subito sera



Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.