Vicino a una torre saracena, per il fratello morto


Io stavo ad una chiara
conchiglia del mio mare
e nel suono lontano udivo cuori
crescere con me, battere
uguale età. Di dèi o di bestie, timidi
o diavoli: favole avverse della
mente. Forse le attente
morse delle tagliole
cupe per i volpi lupi
iene, sotto la luna a vela lacera,
scattarono per noi,
cuori di viole delicate, cuori
di fiori irti. O non dovevano crescere
e scendere dal suono: il tuono tetro
su dall'arcobaleno d'aria e pietra,
all'orecchio del mare rombava una
infanzia errata, eredità di sogni
a rovescio, alla terra di misure
astratte, ove ogni cosa
è più forte dell'uomo.


al di là delle onde delle colline


Non t'è sfuggita la vita per cabale
o ibridi emblemi di zodiaco o sillabe
e numeri ordinati a riscoprire
il mondo. Ma sei stato in prigionia,
a misurare, con la sabbia e il sangue,
i silenzi, le voci della morte,
al di là delle onde delle colline.

Che lunga notte



Che lunga notte e luna rossa e verde
al tuo grido tra zagare, se batti
ad una porta come un re di Dio
pungente di rugiade: "Apri, amore, apri!"
Il vento, a corde, dagli Iblei, dai coni
delle Madonie, strappa inni e lamenti
su timpani di grotte antiche come
l'agave e l'occhio del brigante. E l'Orsa
ancora non ti lascia e scrolla i sette
fuochi d'allarme accesi alle colline,
e non ti lascia il rumore dei carri
rossi di saraceni e di crociati,
forse la solitudine, anche il dialogo
con gli animali stellati, il cavallo
e il cane, la rana, le allucinate
chitarre di cicale nella sera.



Epigrafe per i partigiani di Valenza


Questa pietra
ricorda i partigiani di Valenza
e quelli che lottarono nella sua terra,
caduti in combattimento, fucilati, assassinati
da tedeschi e gregari di provvisorie milizie italiane.
Il loro numero è grande.
Qui li contiamo uno per uno teneramente
chiamandoli con nomi giovani
per ogni tempo.
Non maledire, eterno straniero nella tua patria,
e tu saluta, amico della libertà.
Il loro sangue è ancora fresco, silenzioso
il suo frutto.
Gli eroi sono diventati uomini: fortuna
per la civiltà. Di questi uomini
non resti mai povera l'Italia.


Epigrafe per i caduti di Marzabotto


Questa è la memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di Von Kesselring
e dai loro soldati di ventura
dell'ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.

I milleottocentotrenta dell'altipiano
fucilati e arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto
il civile consenso
per governare anche il cuore dell'uomo,
non chiede compianto o ira
onore invece di liberare armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il Lupo e la sua brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.

La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini d'ogni terra
non dimenticano Marzabotto
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.


Dalla rete dell'oro


Dalla rete dell'oro pendono ragni ripugnanti.

A un poeta nemico (A Giuseppe Marotta)


Su la sabbia di Gela colore della paglia
mi stendevo fanciullo in riva al mare
antico di Grecia con molti sogni nei pugni
stretti e nel petto. Là Eschilo esule
misurò versi e passi sconsolati,
in quel golfo arso l'aquila lo vide,
e fu l'ultimo giorno. Uomo del Nord, che mi vuoi
minimo o morto per tua pace, spera:
la madre di mio padre avrà cent'anni
a nuova primavera. Spera: ch'io domani
non giochi col tuo cranio giallo per le piogge.

Spiaggia a Sant'Antioco


Nel fiele delle crete,
nel sibilo dei rettili,
il forte buio che sale dalla terra
abitava il tuo cuore.

Tu già dolente al cielo delle rive
ti crescevi crudele il sangue
d'una razza senza legge.

Qui dove dorme verde l'aria
di questi mari in cancrena,
affiora bianco scheletro marino.
E tu senti una povera vertebra umana
consorte a quella che il flutto
logora e il sale.

Fino a che memoria ti sollevi
a sospirati echi,
dimenticata è morte:
E la candida immagine sull'alghe
segno è dei celesti.

Ancora un verde fiume


Ancora un verde fiume mi rapina
e concordia d'erbe e pioppi,
ove s'oblia lume di neve morta.

E qui nella notte, dolce agnello
ha urlato con la testa di sangue:

diluvia in quel grido il tempo
dei lunghi lupi invernali,
del pozzo patria del tuono.

"Cavalli di luna e di vulcani" (alla figlia)


Isole che ho abitato
verdi sui mari immobili.

D'alghe arse, di fossili marini
le spiagge ove corrono in amore
cavalli di luna e di vulcani.

Nel tempo delle frane,
le foglie, le gru assalgono l'aria:
in lume d'alluvione splendono
cieli densi aperti agli stellati;

le colombe volano
dalle spalle nude dei fanciulli.

Qui finita è la terra:
con fatica e con sangue
mi faccio una prigione.

Per te dovrò gettarmi
ai piedi dei potenti,
addolcire il mio cuore di predone.

Ma cacciato dagli uomini,
nel fulmine di luce ancora giaccio
infante a mani aperte,
a rive d'alberi e fiumi:

ivi la latomia l'arancio greco
feconda per gl'imenei dei numi.


Già vola il fiore magro


Non saprò nulla della mia vita,
oscuro monotono sangue.

Non saprò chi amavo, chi amo,
ora che qui stretto, ridotto alle mie membra,
nel guasto vento di marzo
enumero i mali dei giorni decifrati.

Già vola il fiore magro
dai rami. E io attendo
la pazienza del suo volo irrevocabile.

Inizio di pubertà


Saccheggiatrice d'inerzie e dolori,
notte; difesa ai silenzi,
l'età rigermina
delle oblique tristezze.

E vedo in me fanciulli 
leggiadri ancora sull'anca,
al declivio delle conchiglie
turbarsi alla mia voce mutata.

Imitazione della gioia


Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l'ultimo tuo passo,
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.

Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.


Delfica


Nell'aria dei cedri lunari,
al segno d'oro udimmo il Leone.
Presagio fu l'ululo terreno.
Svelata è la vena di corolla
sulla tempia che declina al sonno
e la tua voce orfica e marina.

Come il sale dall'acque
io esco dal mio cuore.
Dilegua l'età dell'alloro
e l'inquieto ardore
e la sua pietà senza giustizia.

Perisce esigua
l'invenzione dei sogni
alla tua spalla nuda
che di miele odora.

In te salgo, o delfica,
non più umano. Segreta
la notte delle piogge di calde lune

ti dorme negli occhi:
a questa quiete di cieli in rovina
accade l'infanzia inesistente.
Nei moti delle solitudini stellate,
al rompere dei grani,
alla volontà delle foglie,
sarai urlo della mia sostanza.


Elegos per la danzatrice Cumani


Il vento delle selve
chiaro corre alle colline.
Precoce aggiorna: l'adolescente,
del sangue, ha simile sgomento.

E l'orma dell'acqua è l'alba
sulla riva. Si esauriva in me
il supplizio della sabbia,
a batticuore, spaziando la notte.

Duole durevole antichissimo grido:
pietà per l'animale giovane
colpito a morte fra l'erbe
d'agro mattino dopo le piogge nuove.

La terra è in quel petto disperato,
e ivi ha misura la mia voce:

Tu danzi al suo numero chiuso
e torna il tempo in fresche figure:
anche dolore, ma così quiete
vòlto che per dolcezza arde.

In questo silenzio che rapido consuma
non mi travolgere effimero,
non lasciarmi solo alla luce;

ora che in me a mite fuoco,
nasci Anadiomene.

Sera nella valle del Màsino


Nello spazio dei colli,
tutto inverno, il silenzio
del lume dei velieri:
fredda immagine eterna
navigante! E qui risorge.

Presto la rana cresce il verde:
è foglia; e l'insetto di spine
s'avventa sull'erbe dei canali.
I mulini tentano le ruote,
deserti, all'acqua che si piega.

Non udrò fragore ancora del mare
lungo i lidi dell'infanzia omerica,
il libeccio sull'isole
funebre a luna meridiana,
donne urlare ai morti cantando
dolcezze di giorni nuziali.

E tu come la terra
riappari a volte, e mi deludi
discorde. Basta così poco tempo
per morire da vivi.

Nella veste di colore infantile
inventi il passo d'una spirale
al timpano che imita la notte.
Ma il tuo volto dilegua in tonfi,
in cesure straziate.

Tornano già i prati alla valle; forte
il lamento del corvo. Che certa
presenza, cara, di vita! Avverto
la sera alle tempie, e l'allarme
è un canto di cupo dialetto.

Nulla rimane della mia giornata.
Mi sorprende immutabile la noia
misericorde a ogni gioia apparsa
e alle radici subito indurita.

Calma notte superiore
volontà di consensi,
mi forzerò in così stretta misura
d'ingenua sapienza,
in tutto il freddo pietoso
serrato dentro il mio corpo.