Elegia


Gelida messaggera della notte,
sei ritornata limpida ai balconi
delle case distrutte, a illuminare
le tombe ignote, i derelitti resti
della terra fumante. Qui riposa
il nostro sogno. E solitaria volgi
verso il nord, dove ogni cosa corre
senza luce alla morte, e tu resisti.

Al Quindici di Piazzale Loreto


Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi, chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini, Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d'un albero
di sangue, Galimberti, Ragni, voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la terra
nell'ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe di piombo ci umiliano:
troppo tempo passò. Ricade morte
da bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle porte
ancora delle vostre case. Temono da voi
la morte, credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non è veglia di lacrime alle tombe;
la morte non dà ombra quando è vita.


Giorno dopo giorno


Giorno dopo giorno: parole maledette e il sangue
e l'oro. Vi riconosco, miei simili, o mostri
della terra. Al vostro morso è caduta la pietà,
e la croce gentile ci ha lasciati.
E più non posso tornare nel mio eliso.
Alzeremo tombe in riva al mare, sui campi dilaniati,
ma non uno dei sarcofaghi che segnano gli eroi.
Con noi la morte ha più volte giocato:
s'udiva nell'aria un battere monotono di foglie,
come nella brughiera se al vento di scirocco
la folaga palustre sale sulla nube.

Forse il cuore


Sprofonderà l'odore acre dei tigli
nella notte di pioggia. Sarà vano
il tempo della gioia, la sua furia,
quel suo morso di fulmine che schianta.
Rimane appena aperta l'indolenza,
il ricordo d'un gesto, d'una sillaba,
ma come d'un volo lento d'uccelli
fra vapori di nebbia. E ancora attendi,
non so che cosa, mia sperduta; forse
un'ora che decida, che richiami
il principio o la fine: uguale sorte,
ormai. Qui nero il fumo degli incendi
secca ancora la gola. Se lo puoi,
dimentica quel sapore di zolfo,
e la paura. Le parole ci stancano,
risalgono da un'acqua lapidata;
forse il cuore ci resta, forse il cuore...

Scritto forse su una tomba



Qui lontani da tutti, il sole batte
sui tuoi capelli e vi riaccende il miele,
e noi vivi ricorda dal suo arbusto
già l'ultima cicala dell'estate,
e la sirena che ulula profonda
l'allarme sulla pianura lombarda.
O voci arse dall'aria, che volete?
Ancora sale la noia dalla terra.

Dalla rocca di Bergamo alto


Hai udito il grido del gallo nell'aria
di là dalle murate, oltre le torri,
gelide d'una luce che ignoravi,
grido fulmineo di vita, e stormire
di voci dentro le celle, e il richiamo
d'uccello della ronda avanti l'alba.
E non hai detto parole per te:
eri nel cerchio ormai di breve raggio:
e tacquero l'antilope e l'airone
persi in un soffio di fumo maligno,
talismani d'un mondo appena nato.
E passava la luna di febbraio
aperta sulla terra, ma a te forma
nella memoria, accesa al suo silenzio.
Anche tu fra i cipressi della Rocca
ora vai senza rumore; e qui l'ira
si quieta al verde dei giovani morti,
e la pietà lontana è quasi gioia.


Di un altro Lazzaro


Da lontanissimi inverni, percuote
un gong sulfureo il tuono sulle valli
fumanti. E come in quel tempo, si modula
la voce delle selve: Ante Lucem
a somno raptus, ex herba inter homines
surges. E si rovescia la tua pietra
dove èsita l'immagine del mondo.

Il tuo piede silenzioso


Ed ecco il mare e il fiore già sull'agave
e il colore del fiume vivo lungo
antiche tombe fitte alla muraglia
come celle d'alveare e dentro specchi,
ridenti ancora, fanciulle dai cupi
capelli disciolti. Una era al tuo fianco
sulle rive joniche (splendeva un'ape
liscia di miele nel suo occhio), e lasciò
appena il chiaro d'un nome nell'ombra
degli ulivi. Nessuno che ti salva:
tu sai che appare un giorno uguale ad altri
sul tuo volto: un mutuarsi della luce
rapido intorno al cerchio che ci chiude,
di là dal vuoto della luna, dove
varca l'Ade il tuo piede silenzioso.

Thànatos Athànatos


E dovremo dunque negarti, Dio
dei tumori, Dio del fiore vivo,
e cominciare con un no all'oscura
pietra "io sono", e consentire alla morte
e su ogni tomba scrivere la sola
nostra certezza: thànatos athànatos?
Senza un nome che ricordi i sogni
le lacrime i furori di quest'uomo
sconfitto da domande ancora aperte?
Il nostro dialogo muta; diventa
ora possibile l'assurdo. Là
oltre il fumo di nebbia, dentro gli alberi
vigila la potenza delle foglie,
vero è il fiume che preme sulle rive.
La vita non è sogno. Vero l'uomo
e il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine.


Colore di Pioggia e di Ferro


Dicevi: morte, silenzio, solitudine;
come amore, vita. Parole
delle nostre provvisorie immagini.
E il vento s'è levato leggero ogni mattina
e il tempo colore di pioggia e di ferro
è passato sulle pietre,
sul nostro chiuso ronzio di maledetti.
Ancora la verità è lontana.
E dimmi, uomo spaccato sulla croce,
e tu dalle mani grosse di sangue,
come risponderò a quelli che domandano?
Ora, ora: prima che altro silenzio
entri negli occhi, prima che altro vento
salga e altra ruggine fiorisca.

Lamento per il Sud


La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve...
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell'aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l'uomo grida dovunque la sorte d'una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.

Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l'eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d'arancia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.

E questa sera carica d'inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d'amore senza amore.


Altra risposta


Ma che volete pidocchi di Cristo?
Non accade nulla nel mondo e l'uomo
stringe ancora la pioggia nelle sue ali
di corvo e grida amore e dissonanza.
Per voi non manca sangue
dall'eternità. Soltanto la pecora
si torse al suo ritorno con la testa
brulla e l'occhio di sale.
Ma non accade nulla. E già è muschio
la cronaca ai muri della città
d'un arcipelago lontano.

Una risposta


Se arde alla mente l'àncora d'Ulisse...

Se in riva al mare di Aci, qui fra barche
con l'occhio nero a prua contro la mala
sorte, io potessi dal nulla dell'aria
qui dal nulla che stride di colpo e uncina
come la fiocina del pesce-spada,

dal nulla delle mani che si mutano
come Aci, viva formare dal nulla
una formica e spingerla nel cono
di sabbia del suo labirinto o un virus
che dia continua giovinezza al mio
più fedele nemico,
forse allora sarei simile a Dio -

nell'uguale fermezza della vita
e della morte non contrarie:
onda qui e lava, larve
della luce di questa già futura
chiara mattina d'inverno - risposta
a una domanda di natura e angoscia
che folgora su un numero miliare,
il primo della strada torrida
che s'incunea nell'al di là.


Alla nuova luna


In principio Dio creò il cielo
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari in cielo
e al settimo giorno si riposò.

Dopo miliardi di anni l'uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d'una notte d'ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.

Tempio di Zeus ad Agrigento


La ragazza seduta sull'erba, alza
dalla nuca i capelli ruvidi e ride
della corsa e del pettine smarrito.
Il colore non dice o se strappato
dalla mano rovente che lontana
saluta dietro un mandorlo o finito
sul mosaico del cervo greco in riva
al fiume o in un fosso di spine viola.
E ride la follia dei sensi, ride
continua alla sua pelle di canicola
meridiana dell'isola,
e l'ape lucida zufola e saetta
veleni e vischi d'abbracci infantili.

In silenzio guardiamo questo segno
d'ironica menzogna: e per noi brucia
rovesciata la luna diurna e cade
al fuoco verticale. Che futuro
ci può leggere il pozzo
dorico, che memoria? Il secchio lento
risale dal fondo e porta erbe e volti
appena conosciuti.
Tu giri antica ruota di ribrezzo,
tu malinconia che prepari il giorno
attenta in ogni tempo, che rovina
fai d'angeliche immagini e miracoli,
che mare getti nella luce stretta
d'un occhio! Il telamone è qui, a due passi,
dall'Ade (mormorio afoso, immobile),
disteso nel giardino di Zeus e sgretola
la tua pietra con pazienza di verme
dell'aria: è qui, giuntura su giuntura,
fra alberi eterni per un solo seme.


Vicino a una torre saracena, per il fratello morto


Io stavo ad una chiara
conchiglia del mio mare
e nel suono lontano udivo cuori
crescere con me, battere
uguale età. Di dèi o di bestie, timidi
o diavoli: favole avverse della
mente. Forse le attente
morse delle tagliole
cupe per i volpi lupi
iene, sotto la luna a vela lacera,
scattarono per noi,
cuori di viole delicate, cuori
di fiori irti. O non dovevano crescere
e scendere dal suono: il tuono tetro
su dall'arcobaleno d'aria e pietra,
all'orecchio del mare rombava una
infanzia errata, eredità di sogni
a rovescio, alla terra di misure
astratte, ove ogni cosa
è più forte dell'uomo.


al di là delle onde delle colline


Non t'è sfuggita la vita per cabale
o ibridi emblemi di zodiaco o sillabe
e numeri ordinati a riscoprire
il mondo. Ma sei stato in prigionia,
a misurare, con la sabbia e il sangue,
i silenzi, le voci della morte,
al di là delle onde delle colline.

Che lunga notte



Che lunga notte e luna rossa e verde
al tuo grido tra zagare, se batti
ad una porta come un re di Dio
pungente di rugiade: "Apri, amore, apri!"
Il vento, a corde, dagli Iblei, dai coni
delle Madonie, strappa inni e lamenti
su timpani di grotte antiche come
l'agave e l'occhio del brigante. E l'Orsa
ancora non ti lascia e scrolla i sette
fuochi d'allarme accesi alle colline,
e non ti lascia il rumore dei carri
rossi di saraceni e di crociati,
forse la solitudine, anche il dialogo
con gli animali stellati, il cavallo
e il cane, la rana, le allucinate
chitarre di cicale nella sera.



Epigrafe per i partigiani di Valenza


Questa pietra
ricorda i partigiani di Valenza
e quelli che lottarono nella sua terra,
caduti in combattimento, fucilati, assassinati
da tedeschi e gregari di provvisorie milizie italiane.
Il loro numero è grande.
Qui li contiamo uno per uno teneramente
chiamandoli con nomi giovani
per ogni tempo.
Non maledire, eterno straniero nella tua patria,
e tu saluta, amico della libertà.
Il loro sangue è ancora fresco, silenzioso
il suo frutto.
Gli eroi sono diventati uomini: fortuna
per la civiltà. Di questi uomini
non resti mai povera l'Italia.


Epigrafe per i caduti di Marzabotto


Questa è la memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di Von Kesselring
e dai loro soldati di ventura
dell'ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.

I milleottocentotrenta dell'altipiano
fucilati e arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto
il civile consenso
per governare anche il cuore dell'uomo,
non chiede compianto o ira
onore invece di liberare armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il Lupo e la sua brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.

La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini d'ogni terra
non dimenticano Marzabotto
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.


Dalla rete dell'oro


Dalla rete dell'oro pendono ragni ripugnanti.

A un poeta nemico (A Giuseppe Marotta)


Su la sabbia di Gela colore della paglia
mi stendevo fanciullo in riva al mare
antico di Grecia con molti sogni nei pugni
stretti e nel petto. Là Eschilo esule
misurò versi e passi sconsolati,
in quel golfo arso l'aquila lo vide,
e fu l'ultimo giorno. Uomo del Nord, che mi vuoi
minimo o morto per tua pace, spera:
la madre di mio padre avrà cent'anni
a nuova primavera. Spera: ch'io domani
non giochi col tuo cranio giallo per le piogge.

Spiaggia a Sant'Antioco


Nel fiele delle crete,
nel sibilo dei rettili,
il forte buio che sale dalla terra
abitava il tuo cuore.

Tu già dolente al cielo delle rive
ti crescevi crudele il sangue
d'una razza senza legge.

Qui dove dorme verde l'aria
di questi mari in cancrena,
affiora bianco scheletro marino.
E tu senti una povera vertebra umana
consorte a quella che il flutto
logora e il sale.

Fino a che memoria ti sollevi
a sospirati echi,
dimenticata è morte:
E la candida immagine sull'alghe
segno è dei celesti.

Ancora un verde fiume


Ancora un verde fiume mi rapina
e concordia d'erbe e pioppi,
ove s'oblia lume di neve morta.

E qui nella notte, dolce agnello
ha urlato con la testa di sangue:

diluvia in quel grido il tempo
dei lunghi lupi invernali,
del pozzo patria del tuono.

"Cavalli di luna e di vulcani" (alla figlia)


Isole che ho abitato
verdi sui mari immobili.

D'alghe arse, di fossili marini
le spiagge ove corrono in amore
cavalli di luna e di vulcani.

Nel tempo delle frane,
le foglie, le gru assalgono l'aria:
in lume d'alluvione splendono
cieli densi aperti agli stellati;

le colombe volano
dalle spalle nude dei fanciulli.

Qui finita è la terra:
con fatica e con sangue
mi faccio una prigione.

Per te dovrò gettarmi
ai piedi dei potenti,
addolcire il mio cuore di predone.

Ma cacciato dagli uomini,
nel fulmine di luce ancora giaccio
infante a mani aperte,
a rive d'alberi e fiumi:

ivi la latomia l'arancio greco
feconda per gl'imenei dei numi.


Già vola il fiore magro


Non saprò nulla della mia vita,
oscuro monotono sangue.

Non saprò chi amavo, chi amo,
ora che qui stretto, ridotto alle mie membra,
nel guasto vento di marzo
enumero i mali dei giorni decifrati.

Già vola il fiore magro
dai rami. E io attendo
la pazienza del suo volo irrevocabile.

Inizio di pubertà


Saccheggiatrice d'inerzie e dolori,
notte; difesa ai silenzi,
l'età rigermina
delle oblique tristezze.

E vedo in me fanciulli 
leggiadri ancora sull'anca,
al declivio delle conchiglie
turbarsi alla mia voce mutata.

Imitazione della gioia


Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l'ultimo tuo passo,
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.

Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.


Delfica


Nell'aria dei cedri lunari,
al segno d'oro udimmo il Leone.
Presagio fu l'ululo terreno.
Svelata è la vena di corolla
sulla tempia che declina al sonno
e la tua voce orfica e marina.

Come il sale dall'acque
io esco dal mio cuore.
Dilegua l'età dell'alloro
e l'inquieto ardore
e la sua pietà senza giustizia.

Perisce esigua
l'invenzione dei sogni
alla tua spalla nuda
che di miele odora.

In te salgo, o delfica,
non più umano. Segreta
la notte delle piogge di calde lune

ti dorme negli occhi:
a questa quiete di cieli in rovina
accade l'infanzia inesistente.
Nei moti delle solitudini stellate,
al rompere dei grani,
alla volontà delle foglie,
sarai urlo della mia sostanza.


Elegos per la danzatrice Cumani


Il vento delle selve
chiaro corre alle colline.
Precoce aggiorna: l'adolescente,
del sangue, ha simile sgomento.

E l'orma dell'acqua è l'alba
sulla riva. Si esauriva in me
il supplizio della sabbia,
a batticuore, spaziando la notte.

Duole durevole antichissimo grido:
pietà per l'animale giovane
colpito a morte fra l'erbe
d'agro mattino dopo le piogge nuove.

La terra è in quel petto disperato,
e ivi ha misura la mia voce:

Tu danzi al suo numero chiuso
e torna il tempo in fresche figure:
anche dolore, ma così quiete
vòlto che per dolcezza arde.

In questo silenzio che rapido consuma
non mi travolgere effimero,
non lasciarmi solo alla luce;

ora che in me a mite fuoco,
nasci Anadiomene.

Sera nella valle del Màsino


Nello spazio dei colli,
tutto inverno, il silenzio
del lume dei velieri:
fredda immagine eterna
navigante! E qui risorge.

Presto la rana cresce il verde:
è foglia; e l'insetto di spine
s'avventa sull'erbe dei canali.
I mulini tentano le ruote,
deserti, all'acqua che si piega.

Non udrò fragore ancora del mare
lungo i lidi dell'infanzia omerica,
il libeccio sull'isole
funebre a luna meridiana,
donne urlare ai morti cantando
dolcezze di giorni nuziali.

E tu come la terra
riappari a volte, e mi deludi
discorde. Basta così poco tempo
per morire da vivi.

Nella veste di colore infantile
inventi il passo d'una spirale
al timpano che imita la notte.
Ma il tuo volto dilegua in tonfi,
in cesure straziate.

Tornano già i prati alla valle; forte
il lamento del corvo. Che certa
presenza, cara, di vita! Avverto
la sera alle tempie, e l'allarme
è un canto di cupo dialetto.

Nulla rimane della mia giornata.
Mi sorprende immutabile la noia
misericorde a ogni gioia apparsa
e alle radici subito indurita.

Calma notte superiore
volontà di consensi,
mi forzerò in così stretta misura
d'ingenua sapienza,
in tutto il freddo pietoso
serrato dentro il mio corpo.