Lamentazione d'un fraticello d'icona


Di assai aridità mi vivo,
mio Dio;
il mi verde squallore!

Romba alta una notte
di caldi insetti;

il cordiglio mi slega
la tunica marcia d'orbace:
mi cardo la carne
tarlata d'ascaridi:
amore, mio scheletro.

Nascosto, profondo, un cadavere
mastica terra intrisa d'orina:

mi pento
d'averti donato il mio sangue,
Signore, mio asilo:

misericordia!



Compagno



Non so che luce mi dèsti:
nuziale ellisse di bianco e di celeste
precipita e in me frana. Tu sei,
beata nascita, a toccarmi
e nei silenzi aduni figure dell'infanzia:
mitissimi occhi di pecora trafitta,
un cane che m'uccisero,
e fu un compagno brutto e aspro
dalle scapole secche.

E quel fanciullo io amavo
sopra gli altri; destro
nel gioco della lippa e delle piastre
e tacito sempre e senza riso.

Si cresceva in vista d'alti cieli
correndo terre e vapori di pianeti:
misteriosi viaggi a lume di lucerna,
e il sonno tardo mi chiudeva assorto
nei canti dei pollai, sereni,
nel primo zoccolar vicino ai forni
delle serve discinte.

M'hai dato pianto
e il nome tuo la luce non mi schiara,
ma quello bianco d'agnello
del cuore che ho sepolto.



Un sepolto in me canta


M'esilio; si colma
ombra di mirti
e il sopito spazio m'adagia.

Né amore accosta
silvani accordi felici
nell'ora sola con me:
paradiso e palude
dormono in cuore ai morti.

E un sepolto in me canta
che la pietraia forza
come radice, e tenta segni
dell'opposto cammino.


Curva minore


Pèrdimi, Signore, ché non oda
gli anni sommersi taciti spogliarmi,
sì che cangi la pena in moto aperto:
curva minore
del vivere m'avanza.

E fammi vento che naviga felice,
o seme d'orzo o lebbra
che sé esprima in pieno divenire.

E sia facile amarti
in erba che accima alla luce,
in piaga che buca la carne.

Io temo una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca.

Ancora mi lasci: son solo
nell'ombra che in sera si spande,
né valico s'apre al dolce
sfociare nel sangue. 



Di fresca donna riversa in mezzo ai fiori





S'indovinava la stagione occulta
dall'ansia delle piogge notturne,
dal variar nei cieli delle nuvole,
ondose lievi culle;
ed ero morto.

Una città a mezz'aria sospesa
m'era ultimo esilio,
e mi chiamavano intorno
le soavi donne d'un tempo,
e la madre, fatta nuova dagli anni,
la dolce mano scegliendo dalle rose
con le più bianche mi cingeva il capo.

Fuori era notte
e gli astri seguivano precisi
ignoti cammini in curve d'oro
e le cose fatte fuggitive
mi traevano in angoli segreti
per dirmi di giardini spalancati
e del senso di vita;
ma a me doleva ultimo sorriso.

di fresca donna riversa in mezzo ai fiori.




Parola


Tu ridi che per sillabe mi scarno
e curvo cieli e colli, azzurra siepe
a me d'intorno, e stormir d'olmi
e voci d'acque trepide; -
che giovinezza inganno
con nuvole e colori
che la luce sprofonda.

Ti so. In te tutta smarrita
alza bellezza i seni,
s'incava ai lombi e in soave moto
s'allarga per il pube timoroso,
e ridiscende in armonia di forme
ai piedi belli con dieci conchiglie.

Ma, se ti prendo, ecco:
parola tu pure mi sei e tristezza.


Nell'antica luce delle maree


Città d'isola
sommersa nel mio cuore,
ecco discendo nell'antica luce
delle maree, presso sepolcri
in riva d'acque
che una letizia scioglie
d'alberi sognati.

Mi chiamo: si specchia
un suono in amorosa eco,
e il segreto n'è dolce, il trasalire
in ampie frane d'aria.

Una stanchezza s'abbandona
in me di precoci rinascite,
la consueta pena d'esser mio
in un'ora di là dal tempo.

E i tuoi morti sento
nei gelosi battiti
di vene vegetali
fatti men fondi:

un respirare assorto di narici.



Riposo dell'erba


Deriva di luce; labili vortici,
aeree zone di soli,
risalgono abissi: Apro la zolla
ch'è mia e m'adagio. E dormo:
da secoli l'erba riposa
il suo cuore con me.

Mi desta la morte:
più uno, più solo,
battere fondo del vento:
di notte.


Nascita del canto


Sorgiva: luce riemersa:
foglie bruciano rosee.

Giaccio su fiumi colmi
dove son isole
specchi d'ombre e d'astri.

E mi travolge il tuo grembo celeste
che mai di gioia nutre
la mia vita diversa.

Io muoio per riaverti,
anche delusa,
adolescenza delle membra
inferme.


Alla mia terra


Un sole rompe gonfio nel sonno
e urlano alberi;
avventurosa aurora
in cui disancorata navighi,
e le stagioni marine
dolci fermentano rive nasciture.

Io qui infermo mi desto,
d'altra terra amaro
e della pietà mutevole del canto
che amore mi germina
d'uomini e di morte.

Il mio male ha nuovo verde,
ma le mani son d'aria
ai tuoi rami,
a donne che la tristezza
chiuse in abbandono
e mai le tocca il tempo,
che a me discorza e imbigia.

In te mi getto: un fresco
di navate posa nel cuore:
passi ignudi d'angeli
vi s'ascoltano, al buio.    



L'Eucalyptus


Non una dolcezza mi matura,
e fu di pena deriva
ad ogni giorno
il tempo che rinnova
a fiato d'aspre resine.

In me un albero oscilla
da assonata riva,
alata aria
amare fronde esala.

M'accori, dolente rinverdire,
odore dell'infanzia
che grama gioia accolse,
inferma già per un segreto amore
di narrarsi all'acque.

Isola mattutina:
raffiora a mezza luce
la volpe d'oro
uccisa una sorgiva.



Oboe sommerso


Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;
in me si fa sera:
l'acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.


I ritorni


Piazza Navona, a notte, sui sedili
stavo supino in cerca della quiete,
e gli occhi con rette e volute di spirali
univano le stelle,
le stesse che seguivo da bambino
disteso sui ciottoli del Plàtani
sillabando al buio le preghiere.

Sotto il capo incrociavo le mie mani
e ricordavo i ritorni:
odore di frutta che secca sui graticci,
di violaciocca, di zenzero, di spigo;
quando pensavo di leggerti, ma piano,
(io e te, mamma, in un angolo in penombra)
la parabola del prodigo,
che mi seguiva sempre nei silenzi
come un ritmo che s'apra ad ogni passo
senza volerlo.

Ma ai morti non è dato di tornare,
e non c'è tempo nemmeno per la madre
quando chiama la strada;
e ripartivo, chiuso nella notte
come uno che tema all'alba di restare.

E la strada mi dava le canzoni,
che sanno di grano che gonfia nelle spighe,
del fiore che imbianca gli uliveti
tra l'azzurro del lino e le giunchiglie;
risonanze nei vortici di polvere,
cantilene d'uomini e cigolio di traini
con le lanterne che oscillano sparute
ed hanno appena il chiaro d'una lucciola.



Anche mi fugge la mia compagnia




Anche mi fugge la mia compagnia,
donne di ghetto, giullari di taverna,
fra cui passai gran tempo,
e morta è la ragazza
a cui ardeva il volto perenne
unto d'olio della pasta àzzima
e la buia carne d'ebrea.

Forse è mutata pure la mia tristezza,
come fossi non mio,
da me stesso scordato.




Rifugio d'uccelli notturni


In alto c'è un pino distorto;
sta intento ed ascolta l'abisso
col fusto piegato a balestra.

Rifugio d'uccelli notturni,
nell'ora più alta risuona
d'un battere d'ali veloce.

Ha pure un suo nido il mio cuore
sospeso nel buio, una voce;
sta pure in ascolto, la notte.



Avidamente allargo la mia mano


In povertà di carne, come sono
eccomi, Padre; polvere di strada
che il vento leva appena in suo perdono.

Ma se scarnire non sapevo un tempo
la voce primitiva ancora rozza,
avidamente allargo la mia mano:
dammi dolore cibo cotidiano.


 

In me smarrita ogni forma



Altra vita mi tenne: solitaria
fra gente ignota; poco pane in dono.
In me smarrita ogni forma,
bellezza, amore, da cui trae inganno
il fanciullo e la tristezza poi.


Vicolo


Mi richiama talvolta la tua voce,
e non so che cieli ed acque
mi si svegliano dentro:
una rete di sole che si smaglia
sui tuoi muri ch'erano a sera
un dondolio di lampade
delle botteghe tarde
piene di vento e di tristezza.

Altro tempo: un telaio batteva nel cortile,
e s'udiva la notte un pianto
di cuccioli e bambini.

Vicolo: una croce di case
che si chiamano piano,
e non sanno ch'è paura
di restare sole nel buio.


Nessuno


Io sono forse un fanciullo
che ha paura dei morti,
ma che la morte chiama
perchè lo sciolga da tutte le creature:
i bambini, l'albero, gli insetti;
da ogni cosa che ha cuore di tristezza.

Perchè non ha più doni
e le strade son buie,
e più non c'è nessuno
che sappia farlo piangere
vicino a te, Signore.


Specchio


Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell'acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c'era.




Fresca marina


A te assomiglio la mia vita d'uomo,
fresca marina che tra i ciottoli e luce
e scordi a nuova onda
quella cui diede suono
già il muovere dell'aria.

Se mi dèsti t'ascolto,
e ogni pausa è cielo in cui mi perdo,
serenità d'alberi a chiaro della notte.


Tu chiami una vita


Fatica d'amore, tristezza;
tu chiami una vita
che dentro, profonda, ha nomi
di cieli e giardini.

E fossi mia carne
che il dono di male trasforma.

Mai ti vinse notte così chiara



Mai ti vinse notte così chiara
se t'apri al riso e par che tutta tocchi
d'astri una scala
che già scese in sogno rotando
a pormi dietro nel tempo.

Era Iddio allora timore di chiusa stanza
dove un morto posa,
centro d'ogni cosa,
del sereno e del vento del mare e della nube.

E quel gettarmi alla terra,
quel gridare alto il nome nel silenzio,
era dolcezza di sentirmi vivo.

I morti


Mi parve s'aprissero voci,
che labbra cercassero acque,
che mani s'alzassero a cieli.

Che cieli! Più bianche dei morti
che sempre mi destano piano;
i piedi hanno scalzi, non vanno lontani.

Gazzelle alle fonti bevevano,
vento a frugare ginepri
e rami ad alzare le stelle?


S'udivano stagioni aeree passare



Ambiguo riso tagliava la tua bocca
a darmi pieno soffrire,
un'eco di mature angosce
rinverdiva a toccar segni
alla carne oscuri di gioia.

S'udivano stagioni aeree passare,
nudità di mattini,
labili raggi urtarsi.

Altro sole, da cui venne
questo peso di parlarmi tacito.

Dolore di cose che ignoro


Fitta di bianche e di nere radici
di lievito odora e lombrichi,
tagliata dall'acque la terra.

Dolore di cose che ignoro
mi nasce: non basta una morte
se ecco più volte mi pesa
con l'erba, sul cuore, una zolla.


Antico Inverno


Desiderio delle tue mani chiare
nella penombra della fiamma:
sapevano di rovere e di rose;
di morte. Antico inverno.

Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
così le parole.
Un po' di sole, una raggera d'angelo,
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d'aria al mattino.


Spazio


Uguale raggio mi chiude
in un centro di buio,
ed è vano ch'io evada.
Talvolta un bambino vi canta
non mio; breve è lo spazio
e d'angeli morti sorride.

Mi rompe. Ed è amore alla terra
ch'è buona se pure vi rombano abissi
di acque, di stelle, di luce;
se pure aspetta, deserto paradiso,
il suo dio d'anima e di pietra.


Si china il giorno


Mi trovi deserto, Signore,
nel tuo giorno,
serrato ad ogni luce.

Di te privo spauro,
perduta strada d'amore,
e non m'è grazia
nemmeno trepido cantarmi
che fa secche mie voglie.

T'ho amato e battuto;
si china il giorno
e colgo ombre dai cieli:
che tristezza il mio cuore
di carne!


Terra


Notte, serene ombre,
culla d'aria,
mi giunge il vento se in te mi spazio,
con esso il mare odore della terra
dove canta alla riva la mia gente
a vele, a nasse,
a bambini anzi l'alba desti.

Monti secchi, pianure d'erba prima
che aspetta mandrie e greggi,
m'è dentro il male vostro che mi scava.



Acquamorta


Acqua chiusa, sonno delle paludi
che in larghe lamine maceri veleni,
ora bianca ora verde nei baleni,
sei simile al mio cuore.

Il pioppo ingrigia d'intorno ed il leccio;
le foglie e le ghiande si chetano dentro,
e ognuna ha i suoi cerchi d'un unico centro
sfrangiati dal cupo ronzar del libeccio.

Così, come su acqua allarga
il ricordo i suoi anelli, il mio cuore;
si muove da un punto e poi muore;
così t'è sorella acquamorta.
 


Ariete


Nel pigro moto dei cieli
la stagione si mostra: al vento nuova,
al mandorlo che schiara
piani d'ombra aerei
nuvoli d'ombra e biade:
e ricompone le sepolte voci
dei greti, dei fossati,
dei giorni di grazia favolosi.

Ogni erba dirama,
e un'ansia prende le remote acque
di gelidi lauri ignudi iddii pagani;
ed ecco salgono dal fondo fra le ghiaie
e capovolte dormono celesti.


Albero


Da te un'ombra si scioglie
che par morta la mia
se pure al moto oscilla
o rompe fresca acqua azzurrina
in riva all'Anapo, a cui torno stasera
che mi spinse marzo lunare
già d'erbe ricco e d'ali.

Non solo d'ombra vivo
ché terra e sole e dolce dono d'acqua
t'ha fatto nuova ogni fronda,
mentr'io mi piego e secco
e sul mio viso tocco la tua sforza.


E la tua veste è bianca




Piegato hai il capo e mi guardi;
e la tua veste è bianca,
e un seno affiora dalla trina
sciolta sull'omero sinistro.

Mi supera la luce; trema,
e tocca le tue braccia ignude.

Ti rivedo. Parole
avevi chiuse e rapide,
che mettevano cuore
nel peso d'una vita
che sapevo di circo.

Profonda la strada
su cui scendeva il vento
certe notti di marzo,
e ci svegliava ignoti
come la prima volta.




Angeli




Perduta ogni dolcezza in te di vita,
il sogno esalti; ignota riva incontro
ti venga avanti giorno
a cui tranquille acque muovono appena
folte d'angeli di verdi alberi in cerchio.

Infinito ti sia; che superi ogni ora
nel tempo che parve eterna,
riso di giovinezze, dolore,
dove occulto cercasti
il nascere del giorno e della notte.

Vento a Tìndari




Tìndari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull'acque
dell'isole dolci del dio,
oggi m'assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m'accompagna
s'allontana nell'aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d'ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d'anima.

A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l'esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d'armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tìndari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo
da una rupe
e io fingo timore
a chi non sa
che vento profondo m'ha cercato.





Ed è subito sera



Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.